Con Francesco aggiornamento o tramonto della dottrina sociale?
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 43 del 16/12/2017
La Dottrina sociale della Chiesa, per quanto l’espressione venga utilizzata dal magistero pontificio solo durante il Novecento, nasce con la celebre enciclica Rerum novarum pubblicata da Leone XIII nel 1891. Essa intende avanzare una proposta cattolica per l’organizzazione della vita collettiva. Tale proposta si pone in antitesi sia all’assetto liberal-capitalistico, di cui si denunciano i gravi mali sociali determinati da un’industrializzazione regolata dalla sola legge del profitto; sia alla prospettiva socialista, che viene presentata come contraria alla natura umana perché non rispetta un pilastro costitutivo di ogni ben ordinato consorzio civile, il diritto alla proprietà privata. La dottrina sociale si basa sul presupposto che solo la Chiesa interprete esclusiva della legge naturale voluta da Dio per gli uomini, può indicare le norme per una convivenza prospera e pacifica.
Come ha dimostrato il teologo Marie-Dominique Chenu in un penetrante saggio del 1979, la dottrina sociale rappresenta l’ideologia con cui la Chiesa entra in concorrenza con le altre ideologie – il liberalismo e il socialismo – che si contendono il controllo dell’opinione pubblica nel mondo contemporaneo. Autoproclamandosi depositaria della verità anche in materia politica e sociale, la Chiesa si propone di ottenere il consenso necessario alla riconquista cristiana di una società che nei tempi moderni si era da essa allontanata. Il valore universale di una dottrina preoccupata soltanto del bene comune avrebbe dovuto permettere al laicato credente – cui veniva assegnato il ruolo di nuovo braccio secolare in sostituzione dell’ormai scomparsa figura del principe cattolico – di ottenere il consenso necessario per accedere al potere politico. Finalmente si sarebbe così restituito all’autorità ecclesiastica il ruolo direttivo di cui l’aveva privata la modernità secolarizzatrice.
Nel tempo sono mutate le indicazioni di Leone XIII per migliorare le condizioni di uomini travolti dai processi di pauperizzazione provocati dalla rivoluzione industriale. La dottrina sociale ha subìto un percorso di adeguamento alle profonde trasformazioni via via determinate dallo svolgimento storico. Basta pensare alla proclamazione della funzione sociale della proprietà privata. Tuttavia il carattere ideologico della dottrina sociale non è cambiato. Almeno fino al Vaticano II. L’assise ecumenica si è dovuta infatti confrontare con una domanda che metteva in questione la finalità stessa della dottrina sociale: l’allontanamento dalla Chiesa dell’uomo moderno, che aveva rivendicato l’emancipazione dalla tutela ecclesiastica nello stabilire le forme organizzative della collettività, non dipendeva proprio dalla pretesa ecclesiastica di determinarne gli istituti fondamentali? La risposta del concilio appariva in realtà piuttosto ambigua: proclamava infatti che l’uomo possedeva una iusta autonomia che la Chiesa doveva finalmente riconoscere. Ma dai testi conciliari risultava anche abbastanza evidente che a definire i limiti entro cui tale indipendenza era legittima veniva pur sempre chiamato il magistero.
Toccava a Paolo VI dare un contributo fondamentale all’approfondimento della questione. Nel 1971, in occasione degli ottant’anni della pubblicazione della Rerum novarum, emanava la lettera apostolica Octagesima adveniens, in cui aggiornava l’eredità dei predecessori. In primo luogo, anziché parlare di “dottrina sociale”, usava il sintagma “insegnamento sociale”, in modo che, depotenziando la qualificazione teologica degli interventi della Chiesa in tale materia, ne riconosceva il carattere contingente e variabile. Poteva così, sulla base delle esigenze pastorali del presente, formulare indicazioni innovative. Assegnava infatti alle comunità cristiane operanti all’interno delle diverse formazioni storicoculturali in cui vivevano i credenti il compito di definire le linee in ordine alla presenza della Chiesa nella società. Certo il ruolo di Roma non veniva cancellato: i fedeli erano invitati a prendere le loro decisioni tenendo conto della precedente elaborazione compiuta in materia dal magistero papale; ma era anche chiaro che la responsabilità primaria era ora affidata alle Chiese locali. Infine la proclamazione di un esclusivo possesso della verità veniva ridimensionata: i cattolici, pur mantenendo la dipendenza dai loro vescovi, avrebbero maturato le loro scelte in dialogo non solo con i cristiani separati, ma anche con tutti gli uomini di buona volontà.
Tuttavia lo sforzo probabilmente più significativo di Montini stava nel tentativo di intaccare il carattere ideologico dell’insegnamento sociale della Chiesa, ricordando che esisteva un criterio supremo alla luce del quale si dovevano vagliare tutte le sue espressioni: il Vangelo. Si trattava peraltro di una proposta senza realizzazioni concrete. I due pontificati successivi mostravano poi una netta inversione di tendenza: la locuzione “dottrina sociale” veniva formalmente reintrodotta nei testi del magistero romano e si ribadiva il suo nesso indissolubile con la legge naturale, di cui la Chiesa veniva proclamata unica depositaria autentica. D’altra parte la linea generale di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI può ricondursi al progetto di restaurare, sia pure in termini diversi da quelli del papato preconciliare – il crollo del comunismo sovietico eliminava una possibile via socialista alla soluzione dei problemi contemporanei – una società cristiana, di cui la Chiesa dettava le regole fondamentali. In questa prospettiva la dottrina sociale, pur aggiornata alla luce di un rapporto positivo con alcuni istituti della modernità, ritornava ad acquistare il ruolo ideologico assunto nei decenni precedenti al Vaticano II.
L’avvento di papa Francesco ha delineato un nuovo indirizzo. Se Bergoglio ripropone il sintagma “dottrina sociale”, lo introduce prevalentemente per mostrare che le sue prese di posizione sul rapporto tra Chiesa e società sono radicate nella tradizione, in modo da togliere fondamento alle critiche dei conservatori che mettono in dubbio persino la sua ortodossia. Non occorre ricordare che solo il cieco pregiudizio, dettato da inconsapevolezza storica, può portare a valutazioni come quelle di questi ambienti. Importa invece notare che i riferimenti di papa Francesco costituiscono uno sviluppo rilevante delle formulazioni di Paolo VI. Asserendo che la Chiesa non ha una ricetta per risolvere le grandi questioni che affliggono il mondo, anzi affermando che una ricetta non esiste, ma va trovata attraverso un paziente lavoro di analisi e discussione svolto da tutti gli uomini di buona volontà (cristiani e non cristiani), egli riconosce la piena autonomia delle elaborazioni in materia politica e sociale compiute da ogni soggetto impegnato nella vita pubblica. Questo riconoscimento non implica peraltro una rinuncia della Chiesa ad intervenire in questo ambito.
Lo testimoniano i discorsi finora tenuti ai movimenti popolari. Essi mostrano la volontà di Bergoglio di stimolarne lo sviluppo senza interferire nella loro autonomia. Partendo da un confronto tra Vangelo e società contemporanea, egli coglie nell’attuale idolatria del denaro una radicale contraddizione rispetto al modello di rapporti umani sintetizzato nelle beatitudini. Ne trae la prospettiva di dover sostenere tutti coloro, credenti o meno, che si dedicano a costruire processi di cambiamento di questa situazione. Non si sofferma su modalità operative, affidate alla loro piena responsabilità; si prodiga invece nell’incoraggiarli a partecipare alla vita pubblica al fine di ottenere un mutamento effettivo dei rapporti umani su scala planetaria. In quest’ottica la Dottrina sociale si avvia a trasformarsi da ideologia della riconquista cristiana della società e critica degli esistenti assetti sociali sulla base dei valori evangelici.
* Daniele Menozzi è docente di Storia contemporanea alla Normale di Pisa, studioso del papato moderno e contemporaneo
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