PD, un progetto (ancora) non realizzato
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 37 del 20/10/2017
I dieci anni dalla nascita del PD si celebrano in un clima non proprio esaltante. Con una democrazia investita da corrosive spinte populiste, con un sistema politico frammentato, con partiti impopolari, con una sinistra divisa, con un PD che non se la passa bene. Sarebbe eccentrico e autolesionista che il PD, nella ricorrenza dei suoi dieci anni di vita, si limitasse a celebrare se stesso. Mi auguro cioè che si colga l'occasione per un onesto bilancio critico, che non esorcizzi i problemi.
Per parte mia, alla costruzione del PD ho dedicato gran parte della mia esperienza politica. Sin dall'atto di nascita dell'Ulivo, al fianco di Romano Prodi. Un manipolo decisamente esiguo e un po' visionario ...che già allora, nel 1995, sognava l'approdo al PD, circondato dalla diffidenza generale, da resistenze e nostalgia, dalla retorica delle gloriose tradizioni del passato che rivestivano più prosaiche rendite di posizione in capo a un ceto politico di estrazione Dc e Pci.
A distanza di dieci anni, nono-stante il mio giudizio severamente critico sul PD di oggi, sul suo deragliamento rispetto al progetto originario, penso che quell'idea fosse giusta e lungimirante. In certo modo anche obbligata: la crisi dei grandi partiti storici era già molto avanzata. Vistosa la loro decadenza e il loro discredito, esaurite le loro ragioni storiche e le loro basi ideologiche, strettamente connesse alla guerra fredda. Da un lato il tragico fallimento dei regimi comunisti, dall'altro la consumazione dello schema della forzosa unità politica dei cattolici, a fatica autoritativamente puntellata ancora per qualche anno dalla strategia politico-ecclesiastica intestata alla coppia Wojtyla-Ruini.
L'Ulivo proteso a farsi PD ebbe fasi alterne, avanzamenti e regressioni (particolarmente traumatica la caduta del primo governo Prodi, che, se avesse retto la legislatura, forse avrebbe anticipato di anni la nascita del PD, realizzata poi solo nel 2007). Esso si proponeva essenzialmente due obiettivi. L'uno sistemico, l'altro politico. Il primo: portare a compimento l’incompiuta democrazia italiana quale democrazia competitiva e dell'alternanza, imperniata su due poli (non due soli partiti!), rispettivamente conservatori e progressisti, di centrodestra e di centrosinistra. Quale che sia il giudizio circa la qualità dei governi dell'Ulivo, sta il fatto che a quel progetto va ascritto un guadagno di portata storica per la democrazia italiana: quello di avere portato tutta intera la sinistra a responsabilità di governo dopo mezzo secolo di opposizione. Il secondo obiettivo, politico, dell'Ulivo: organizzare unitariamente il campo del centrosinistra, mettendo insieme – come usava dire forse un po' retoricamente – le forze (e le culture) democratiche e riformiste che avevano forgiato la storia italiana ed europea. Anche per competere – questo l'obiettivo contingente – con il largo e agguerrito fronte antagonista già costituitosi intorno alla nuova leadership di Berlusconi, il più abile e sollecito nel sincronizzarsi con la regola elettorale maggioritaria e nell’occupare così il largo vuoto politico prodotto dalla dissoluzione del pentapartito raccolto intorno alla vecchia e decadente Dc.
Non è possibile qui percorrere i dieci anni che sono seguiti. Veniamo all'oggi. Il PD, a detta di molti osservatori, si è ridotto al partito di Renzi. Un partito personale affatto diverso per profilo identitario, per posizionamento, per politiche. Un partito moderato, centrista o più esattamente incline, attraverso l'azione politica movimentista e un po' corsara del suo leader, a fare indifferentemente e alternativamente cose di sinistra, di centro, di destra, al fine di occupare quasi per intero lo spazio politico. Il "partito della nazione", privo di una riconoscibile base ideologica. Non era così nel dna dell'Ulivo: si mirava a un partito nuovo, ma a un partito vero; di centrosinistra nitidamente alternativo al centrodestra; che operasse una ripresa critica e creativa delle radici e delle culture politiche pregresse, ma non il loro azzeramento/rottamazione...
Tutta colpa di Renzi? Sarebbe una semplificazione. Egli ha impresso un'accelerazione e una accentuazione personalistica a dinamiche che tuttavia datano da prima. Ne menziono (senza svolgerle) tre: l'assolutizzazione del paradigma maggioritario spinto al limite della forzosa e velleitaria reductio ad unum del centrosinistra, cioè la cosiddetta vocazione maggioritaria del PD spinta al limite della sua presuntuosa, velleitaria autosufficienza; una cifra ideologica sostanzialmente "molto lib e poco lab" che ha sostituito l’idea forza della sinistra, l'uguaglianza, con la retorica della innovazione (indifferente al suo segno/indirizzo/direzione); una forma partito ridotto a comitato elettorale del leader circondato da fedeli, con il puntuale corredo di fenomeni di opportunismo/trasformismo e, conseguentemente, scontando l'inadeguatezza di una classe dirigente degna di questo nome.
Ripeto: Renzi ci ha messo del suo, ma quei tratti erano già germinalmente presenti nella versione veltroniana del PD, nel suo statuto, nella sua "base ideologica", nella evanescenza della forma partito e nell’interpretazione della leadership. A ben vedere, a Renzi è riuscito ciò che non era riuscito al primo segretario PD. Ma le premesse stavano già lì.
* Franco Monaco è senatore del PD, cattolico democratico
Adista rende disponibile per tutti i suoi lettori l'articolo del sito che hai appena letto.
Adista è una piccola coop. di giornalisti che dal 1967 vive solo del sostegno di chi la legge e ne apprezza la libertà da ogni potere - ecclesiastico, politico o economico-finanziario - e l'autonomia informativa.
Un contributo, anche solo di un euro, può aiutare a mantenere viva questa originale e pressoché unica finestra di informazione, dialogo, democrazia, partecipazione.
Puoi pagare con paypal o carta di credito, in modo rapido e facilissimo. Basta cliccare qui!