
La terra oltre lo Stato
Tratto da: Adista Documenti n° 34 del 07/10/2017
Nel complesso rapporto tra popolo e terra, non c'è dubbio che palestinesi e curdi rappresentino due casi emblematici. Pur partendo da premesse simili, le loro parabole si sono sviluppate seguendo direzioni profondamente diverse.
I palestinesi, come noto, aspirano a uno Stato – che sia attraverso la soluzione "due popoli, due Stati" o tramite quella di un unico Stato binazionale –; i curdi, abbandonata l'idea di uno Stato-nazione che ricomprendesse i territori attualmente divisi tra Turchia, Iran, Iraq e Siria, sono approdati all'idea rivoluzionaria di "una democrazia senza Stato", espressa nella forma del confederalismo democratico, in vista della costruzione di una società libera dall’autoritarismo, dal patriarcalismo, dal militarismo, dal centralismo e dall’intervento delle autorità religiose nella vita pubblica: un sistema partecipativo che riconosce e applica concretamente la parità di genere e abbraccia tutte le confessioni religiose e le etnie.
Il caso del Rojava, il Kurdistan siriano, è esemplificativo di questo processo. La rivolta popolare contro il regime siriano iniziata nel 2011 è stata infatti l'occasione per i curdi della regione di aprire la strada a un rapido cambiamento, diventando un modello di organizzazione politica per l'intero Medio Oriente (e non solo). A partire dal luglio del 2012 – prese le distanze sia dalle forze di Assad che da quelle di opposizione – i curdi hanno infatti cacciato l'esercito governativo dalle città del Rojava, assumendo nelle loro mani la gestione del governo locale, sulla base di un rivoluzionario Contratto Sociale, adottato «con l’intento di perseguire libertà, giustizia, dignità e democrazia, nel rispetto del principio di uguaglianza e nella ricerca di un equilibrio ecologico». Propositi, tutti questi, in linea con l'evoluzione del pensiero del leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan Abdullah Öcalan, il quale sta scontando in Turchia in condizioni durissime una condanna all’ergastolo in un carcere di massima sicurezza. È a lui in particolare che si deve il concetto di Confederalismo Democratico quale "amministrazione politica non statale o democrazia senza Stato", nella convinzione che, se gli Stati sono fondati sul potere, le democrazie sono basate sul consenso collettivo e, se lo Stato utilizza la coercizione come strumento legittimo, le democrazie poggiano sulla partecipazione volontaria. Cosicché la creazione di uno Stato-nazione – avendo questo, in quanto ossatura portante del capitalismo moderno, un carattere strutturalmente violento – lungi dal rappresentare una risposta definitiva, costituisce al contrario un ostacolo sulla via della liberazione nazionale. Ed è significativo che per Öcalan il confederalismo democratico non si presenti come una soluzione per un unico popolo, ma piuttosto come un paradigma da applicare all’intera Mesopotamia, al Medio Oriente e anche oltre, quale «unico approccio in grado di confrontarsi con gruppi etnici diversificati, con religioni diverse e con differenze di classe».
Non a caso, oltre mezzo secolo fa, già Hannah Arendt esprimeva la propria opposizione alla creazione di uno Stato ebraico, preferendo un accordo confederale fondato su «consigli municipali e rurali misti, ebraico-arabi, di autogoverno locale, su piccola scala, quanto più possibile numerosi» come «sola misura politica realistica in grado di condurre all’emancipazione politica della Palestina». E, 50 anni dopo, anche Bill Templer, docente dell'Università di Malaya (Malaysia) ha suggerito una “soluzione non statuale” per il conflitto apparentemente irrisolvibile fra Palestina e Israele, incorporando la visione di un sistema decentrato costruito sulla base di «nuove forme di democrazia diretta, di partecipazione popolare, di orizzontalità e di autonomia di vicinato», al di là della Palestina storica, seguendo una prospettiva bio-regionale attenta al bisogno di gestione economica comune di risorse sempre più scarse, quali acqua, gas e petrolio.
E – alla luce delle analisi degli autori di questo quarto numero della serie “Terra. Di ritorno dall’esilio: la riscoperta della nostra Casa comune” (promossa dalla nostra associazione, Officina Adista, e finanziata con il contributo dell’8 per mille della Chiesa valdese) – questa sarebbe forse una soluzione molto più praticabile di quella dei "due popoli, due Stati". Perché, come evidenzia Vera Pegna, se dovesse passare tale opzione, «la situazione sul terreno, dopo 50 anni di occupazione e accaparramento di nuovi territori da parte di Israele, non consentirebbe» certo la costituzione di uno Stato sovrano, essendo la Cisgiordania «priva della continuità territoriale necessaria a formare uno Stato», senza contare «la totale dipendenza da Israele per l’acqua, l’energia, la rete di telefonia mobile, gli aeroporti, ecc», mentre «Gaza, devastata, e con la sua popolazione ridotta alla fame, rimarrebbe totalmente tagliata fuori».
Di seguito gli interventi di Vera Pegna, Wasim Dahmash, Nino Lisi, Ozlem Tanrikulu, Suveyda Mahmuddi. Buona lettura.
Immagine di Angeloux
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