Presentazione. Per una "pedagogia del suolo"
Tratto da: Adista Documenti n° 14 del 08/04/2017
Sotto i nostri piedi palpita un corpo vivo: un ettaro di suolo contiene 15 tonnellate di organismi, vale a dire un chilo e mezzo di vita a metro quadro. È una pellicola sottilissima, il cui spessore varia da 70 a 200 centimentri, ma al cui interno – come ha scritto Paolo Pileri, docente di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano, nel suo libro Che cosa c'è sotto. Il suolo, i suoi segreti, le ragioni per difenderlo – «avvengono un mondo di cose che fanno del suolo il sistema senza dubbio più complesso della Terra»: un sistema estremamente delicato, «segreto e meraviglioso», qualcosa che ci sostiene, ci nutre e ci fa respirare. E che, considerando i tempi estremamente lunghi della sua formazione, costituisce una risorsa sostanzialmente non rinnovabile: per produrre uno strato di humus fertile dello spessore di 2,5 centimetri servono, infatti, più o meno 500 anni ed è una crescita di appena 0,4 centimetri quella a cui possiamo assistere nel corso della nostra vita. Eppure, questo corpo vivo, unico e prezioso noi lo avveleniamo, lo devastiamo, lo saccheggiamo, lo cancelliamo sotto colate di cemento: lo distruggiamo a un ritmo dalle 10 alle 40 volte superiore a quello a cui può essere naturalmente ricostituito.
E se ha ragione Pileri a evidenziare come il consumo di suolo sia «una sorta di patologia del sistema culturale in cui viviamo», il «sintomo di una malattia che si mangia pezzetto dopo pezzetto le nostre risorse e i nostri paesaggi», questa patologia è particolarmente evidente nel nostro Paese, che pure è stato il primo al mondo a inserire nella sua Costituzione la tutela del paesaggio, ma il cui patrimonio territoriale è esposto senza pietà all’insaziabile appetito di pochi grandi speculatori. Così, quello che è stato definito, a ragione, il Belpaese – per i suoi paesaggi, per i suoi tesori, per i suoi borghi, per il suo immenso patrimonio archeologico e culturale, per i prodotti della sua terra – appare sempre più orrendamente ferito, deturpato, sfigurato dalla crescita incontrollata e disordinata dei centri urbani, dagli ecomostri, dall’asfalto, dall’incuria.
Un’aggressione impressionante, continua, impietosa alla nostra “grande bellezza” che ogni anno il rapporto dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) traduce in cifre che lasciano interdetti: se, tra il 2013 e il 2015, sono andati persi altri 250 chilometri quadrati di territorio, al ritmo di circa 4 metri quadrati al secondo (andava ancora peggio negli anni 2000, quando finivano sotto colate di cemento 8 metri quadrati ogni secondo), il consumo di suolo è cresciuto dagli anni ’50 a oggi del 159%, intaccando ormai circa 21.100 chilometri quadrati del nostro Paese. Uno scempio che il disegno di legge in materia di “contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”, approvato dalla Camera il 12 maggio 2016 e oggi in discussione al Senato, è – secondo quanto indicato dall'Ispra – del tutto inadeguato a contrastare, continuando a proporre, a livello di pianificazione urbanistica, «un modello tradizionale di crescita insediativa e infrastrutturale scollegata dai bisogni effettivi» e finendo così per accontentare appena i palazzinari.
Non a caso lo storico dell'arte Tomaso Montanari ha definito il consumo irreversibile di suolo «l'unica impresa comune nella quale gli italiani delle ultime generazioni sembrano essersi coalizzati», «il più evidente dei nostri vari suicidi collettivi». Con conseguenze incalcolabili anche in termini di riduzione dell’autonomia alimentare (il nostro Paese ha perso dal 1971 al 2010 quasi 5 milioni di ettari di superficie agricola utilizzata: un’area grande come Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna messe insieme), di dissesto idrogeologico (con danni pari a 61 miliardi di euro in poco più di 60 anni), di concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, di minacce alla biodiversità (di cui pure l’Italia è uno dei Paesi più ricchi in Europa), di perdita di bellezza, quella bellezza che pure potrebbe davvero diventare il vero motore del progresso italiano e che invece viene disintegrata in un monotono susseguirsi di capannoni, supermercati e case.
E se è vero che una reale forza di opposizione alla devastazione dei territori viene da una fitta rete di gruppi ambientalisti, associazioni, forum e liste civiche (a partire dal Forum nazionale Salviamo il Paesaggio, con i suoi quasi mille comitati locali), tale resistenza è chiamata, però, a tradursi in un vero movimento politico di opinione, in grado di proporre, secondo l'espressione di Paolo Pileri, una «pedagogia dei suoli» che riguardi tutti, dalla scuola alla politica, e con ciò una nuova idea di città, di Paese e di cittadinanza. Per applicare così, finalmente, l'insegnamento dell'Atharva Veda (uno dei libri sacri dell'induismo): «Fa' che quel che scavo da te, o Terra, rapidamente risorga e cresca di nuovo. O Purificatrice, fa' che io non trapassi i tuoi organi vitali o il tuo cuore».
È per tutto questo che abbiamo scelto di dedicare a tale questione – affrontata, nelle pagine che seguono, da Domenico Finiguerra, Aldo Zanchetta, Alessandro Mortarino, Sergio Cabras e Cinzia Thomareizis – il secondo numero della serie dal titolo “Terra. Di ritorno dall’esilio: la riscoperta della nostra Casa comune”, promossa dalla nostra associazione, Officina Adista, e finanziata con il contributo dell’8 per mille della Chiesa valdese. Buona lettura.
* Immagine per gentile concessione dell'autore, Maximino Cerezo Barredo
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