Fieri di essere fuori dal consenso nazionale. L'israeliana Breaking the Silence insignita di un premio
Tratto da: Adista Documenti n° 4 del 28/01/2017
DOC. 2835 TEL AVIV-ADISTA. Ogni anno, il Dipartimento Studi sul Medio Oriente dell'Università Ben Gurion del Negev, in Israele, assegna il premio William Berelson a una persona o una organizzazione che si sia distinta nella promozione del dialogo tra arabi ed ebrei. Quest'anno la scelta era caduta sull'ong israeliana Breaking the Silence (BtS), che riunisce veterani ed ex combattenti dell’esercito israeliano (IDF) che hanno prestato servizio nei Territori palestinesi dall’inizio della seconda Intifada a oggi e che vogliono far sapere al mondo la verità circa la presenza militare israeliana nei Territori occupati. «Crediamo che, per far progredire il dialogo tra arabi ed ebrei, sia necessario mettere l'opinione pubblica di fronte alla verità circa l'occupazione», aveva dichiarato il capo Dipartimento, il prof. Haggai Ram, spiegando le ragioni della scelta: «Non è una cosa piacevole, ma è condizione fondamentale per la riconciliazione tra i due popoli». A sorpresa però, con un'iniziativa che non ha precedenti, la rettrice dell'Università, Rivka Carmi, ha disposto la cancellazione del premio perché l'organizzazione Breaking the Silence sarebbe «fuori dal consenso nazionale».
Una decisione, quella della rettrice – la quale in passato, a differenza di oggi, è stata in prima linea nella difesa della libertà accademica (come racconta il portale di informazione israeliano +972mag, in un articolo del 28 giugno scorso a firma Mairav Zonszein) –, con tutta probabilità determinata dal timore di veder calare le donazioni all'Università. Timore peraltro non infondato. Basti pensare che, nel maggio scorso, Michael Gross, membro del Consiglio amministrativo della Ben Gurion, ha trattenuto un versamento da 1 milione di dollari a causa del fatto che Breaking the Silence era stata invitata a partecipare a una conferenza all'interno dell'Università.
Il clima che si respira in Israele a questo riguardo d'altronde non fa che peggiorare: non si contano, nell'arco dell'ultimo anno, gli attacchi a persone e organizzazioni che mettono in discussione la politica di occupazione israeliana e le violazioni dei diritti umani compiute da esercito e governo. Breaking the Silence, per esempio, è stata bersaglio del premier Benjamin Netanyahu, del ministro della Difesa Moshe Ya'alon e della polizia. Un anno fa, solo per dirne una, Im Tirtzu, movimento sionista extraparlamentare di estrema destra, ha diffuso un video nel quale accusava i capi di quattro organizzazioni progressiste israeliane – oltre a BtS, The Public Committee Against Torture in Israel, B’Tselem e Hamoked – di essere agenti stranieri impiantati in Israele allo scopo di aiutare il «terrorismo» palestinese. Il messaggio è chiaro, scriveva allora su 972mag Michael Schaeffer Omer-Man: «Non c’è spazio per l'idea che gli israeliani, in coscienza e senza alcun incentivo, possano essere turbati da un sistema giuridico differenziato su base etnica e religiosa. Né per l'idea che gli israeliani, motivati dai più universali valori liberali, possano voler formare organizzazioni che si oppongono all'uso della tortura da parte del proprio governo. Né c’è spazio per l'idea che gli stessi figli di Israele, i suoi soldati da combattimento inviati nei Territori occupati, possano avere rimorsi di coscienza e sentire il bisogno di parlare di quello che hanno fatto per il loro Paese. In breve – concludeva – chi accusa le organizzazioni per i diritti umani di essere agenti stranieri sta dicendo che i diritti umani sono valori estranei alla società israeliana» (v. Adista Notizie n. 1/16).
Alcuni studenti e docenti della Ben Gurion comunque non si sono rassegnati e il 7 novembre scorso hanno assegnato a Breaking the Silence un premio alternativo, alla presenza, tra gli altri, dello scrittore Amos Oz. «La professoressa Carmi, il professor HaCohen e gli altri membri dell’amministrazione che hanno scelto l'argomento del consenso non ci hanno rivelato niente di nuovo», ha detto in quella sede Yuli Novak, direttrice di BtS: «Hanno ragione. Noi siamo, orgogliosamente, fuori dal consenso». «Breaking the Silence farà parte del consenso il giorno in cui vinceremo, il giorno in cui finirà l’occupazione e inizierà un processo di ricostruzione e riconciliazione. Fino ad allora – ha concluso – non abbiamo alcun interesse a far parte del consenso. Non perché vogliamo essere dispettosi, ma perché non abbiamo altra scelta».
Vi proponiamo, in una nostra traduzione dall'inglese, il testo dell'intervento di Novak, apparso sul portale +972mag (7/11).
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