Comunità di Bose. Enzo Bianchi e il Libro blu della preghiera ecumenica
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 5 del 06/02/2016
Prima del Concilio Vaticano II un’avventura come quella della comunità di Bose sarebbe stata impensabile: lo ha detto Enzo Bianchi, priore di Bose, martedì 1 dicembre 2015 durante una conferenza sulla vita monastica interconfessionale organizzata dal centro “Alberto Hurtado” della Pontificia Università Gregoriana. L’unico esperimento preconciliare di vita comunitaria tra cristiani di confessioni diverse, ha aggiunto Bianchi, è quello realizzato da Maria di Campello, una missionaria francescana che negli anni ’20 del secolo scorso costituì, insieme ad alcune sorelle tra cui due anglicane, una fraternità di vita semplice in un piccolo convento vicino alle fonti del Clitunno. Il vescovo di Spoleto si oppose, condizionando pesantemente la vita della comunità. Una comunità peraltro dotata di straordinarie capacità profetiche e di dialogo: Maria riuscì a tessere relazioni con Albert Schweitzer, George Tyrrell, Ernesto Bonaiuti, don Primo Mazzolari, padre Balducci e perfino con il Mahatma Gandhi. Nei suoi scritti si scopre un notevole spessore spirituale. Non c’è nulla di devozionale, nessuna traccia di proselitismo camuffato da ecumenismo. Maria afferma che ognuno deve restare fedele alla via in cui lo ha posto il Signore, ma che è possibile camminare insieme per «cercare Dio e vivere sulle tracce di Gesù».
Le difficoltà di pensare una vita comunitaria ecumenica
Fu attraverso l’amicizia con un sacerdote molto legato a lei, don Michele Do, che Enzo Bianchi conobbe i pensieri e gli scritti di Maria di Campello. Un certo interesse per l’ecumenismo, tuttavia, è sempre stato presente nel priore di Bose. Bianchi ha ricordato di quando a 17/18 anni, reo di aver frequentato una chiesa avventista del settimo giorno, fu privato dell’eucaristia dal suo parroco per due mesi consecutivi. Poi vennero gli anni dell’università, la breve esperienza nella Fuci di Torino e il gruppo ecumenico di via Piave, frequentato da padre Eugenio Costa, da alcuni battisti, da valdesi e da un ortodosso greco. Siamo nel 1963: il Vaticano II è aperto da poco e Bianchi, soprattutto dopo una lunga permanenza presso l’Abbé Pierre, il quale gli ricordava sempre che «i poveri sono per noi una cattedra, non i destinatari della carità», sente crescere la vocazione monastica. Enzo Bianchi comincia a vivere a Bose e a coltivare legami di amicizia con Roger Schutz, il priore di Taizé. A quell’epoca Schutz guidava una comunità di circa 40 membri, tutti protestanti, e voleva aprire ai cattolici: una novità assoluta. A Taizé c’erano già dei francescani belgi e francesi che facevano da nucleo di accoglienza per i cattolici in visita alla comunità, ovviando così al problema dell’eucaristia celebrata da pastori protestanti. Schutz chiese a Bianchi di trasferirsi a Taizé ma quest’ultimo, su suggerimento del card. Pellegrino, suo padre spirituale, declinò l’invito. I ritiri a Taizé tuttavia non mancarono, come quello di oltre tre mesi durante il quale Bianchi fu convocato dal vescovo di Autun, Le Bourgeois, che gli disse: «Mi raccomando, lei viene qui a Taizé ma non si sogni di far parte della comunità: noi cattolici non possiamo perché l’eucaristia dei protestanti non è un ministero valido; non è possibile la vita comune». Ci furono tensioni anche con i francescani del gruppo di accoglienza, che vedevano in Bianchi il cavallo di Troia inviato per introdurre i cattolici a Taizé. Questo per dire quanto fosse difficile, a quel tempo, pensare una vita comunitaria interconfessionale.
Le ire episcopali
Nel ’68 ecco arrivare a Bose un giovane pastore protestante di Neuchâtel, poi un altro da Novara e una ragazza da Ivrea, tutti desiderosi di darsi alla vita monastica. Ma la comunità che andava costituendosi era formata da un cattolico, due protestanti e, cosa ancor più problematica, da una donna. «Nella mia follia – ha raccontato Bianchi – andai a Grandchamp, una comunità di suore protestanti vicino a Neuchâtel, e chiesi alla priora Minke de Vries: “Mi manda una sorella? Perché sto mettendo su una comunità mista e non voglio che la ragazza che si trova a Bose sia sola”». La priora pregò e rifletté tutta la notte, poi il mattino seguente affidò a Bianchi suor Christiane perché rimanesse a Bose per un anno. È l’ottobre del ’68. Un mese dopo il vescovo di Biella, allarmato per la presenza di protestanti nella comunità, dà l’interdetto all’intera frazione di Bose, cioè il divieto di celebrare i sacramenti. A nulla valgono i tentativi di mediazione di p. Eugenio Costa e del provinciale dei cappuccini di Torino. Il divieto dura alcuni mesi. Poi, un giorno, il card. Pellegrino – che nel frattempo era diventato responsabile della comunità – arriva a Bose con la bella notizia: l’interdetto è terminato, si può celebrare. Pellegrino rimarrà responsabile della comunità fino alla morte, dopodiché lo seguiranno il card. Ballestrero e p. Eugenio Costa: «Fu in particolare quest’ultimo a proteggerci dalle ire episcopali», ha sottolineato Bianchi.
Il problema della preghiera comune e dell’eucaristia
La preghiera comune costituisce il primo grande problema per una comunità di natura interconfessionale. Come comportarsi con i nomi dei santi, per esempio, se nella comunità ci sono dei protestanti? A Bose si trovò una soluzione con un libro, o meglio un ciclostilato di colore blu che già nel ’69 veniva utilizzato come testo per la preghiera comune. Si trattava in sostanza di una liturgia delle ore cattolica arricchita da collette e preghiere litaniche raccolte un po’ da tutto il mondo cristiano: dagli orazionari anglicano, mozarabico, siriaco, bizantino, luterano, dei fratelli murabi... Quel testo, che ben rappresenta lo spirito ecumenico di Bose, fu poi pubblicato dalla Morcelliana nel ‘72 e ripubblicato in versione estesa nel ‘93 e nel 2010. Oggi è un libro di 1.700 pagine grazie al quale tutti i cristiani possono pregare insieme senza sentire la propria confessione ferita o minacciata.
Ma il problema della preghiera comune è poca cosa di fronte allo scoglio dell’eucaristia. Una comunità interconfessionale può pregare insieme, fare professione monastica sulla stessa regola, condividere i beni, ma di fronte all’eucaristia inevitabilmente si divide. Il card. Pellegrino risolse la questione facendo riferimento al decreto sull’ecumenismo, che in casi particolari consente l’accesso all’eucaristia cattolica a chi cattolico non è: così i riformati cominciarono a partecipare alla celebrazione officiata dai cattolici. La cosa non piacque a un grande liturgista, che sporse denuncia a Roma: seguì un richiamo del Segretariato dell’unità e la comunità dovette interrompere la pratica. Fu grazie a don Giustetti – un sacerdote conosciuto da Bianchi nel ‘66, poi divenuto vescovo di Biella – che la celebrazione comune poté riprendere. È chiaro tuttavia che non può esserci reciprocità: se l’eucaristia è celebrata da pastori protestanti i cattolici non possono parteciparvi. Il problema è che nel mondo protestante non c’è un’unica comprensione dell’eucaristia. Con gli ortodossi le cose non vanno meglio, anche se alcuni igumeni sarebbero lieti di ammettere i cattolici alla loro celebrazione eucaristica, il che del resto è consentito dalla Chiesa di Roma.
L’unità perfetta è ancora lontana
Altro problema: la comunione tra le Chiese. Le difficoltà più serie si incontrano con le Chiese riformate, perché queste non hanno nessun principio né istituto giuridico per dichiarare la comunione. È Bose a cercare di coinvolgerle, facendo tuttavia attenzione a non sconfinare nel proselitismo: è fondamentale che ciascuno resti fedele alla propria confessione. I monaci della comunità cercano la sinfonia, non vogliono imporsi; sarebbe assurdo fare un cammino comune portando la divisione all’interno delle Chiese. Ognuno deve rispettare la propria vocazione, le proprie radici: solo così è possibile fare un dialogo reale, serio.
L’ultimo problema riguarda l’aspetto giuridico. All’epoca del Sinodo sulla vita religiosa, con Giovanni Paolo II, fu chiesto a Enzo Bianchi di redigere una possibile costituzione per comunità interconfessionali, ma poi non se ne fece nulla. Il priore di Bose riprese l’argomento con papa Ratzinger, ma Benedetto XVI rispose che la faccenda non era così semplice, che occorrevano i giuristi. Papa Bergoglio ha costituito una squadra di esperti in diritto canonico per studiare la situazione: con lui tutto sembra più promettente, ma occorre ancora lavorare. Di comunità ecumeniche nel senso stretto del termine, oggi, ne esistono solo due: Taizé e Bose, la prima costituita da protestanti e cattolici, la seconda da cattolici, riformati e ortodossi. Il diritto canonico non è ancora in grado di dire come integrare in una stessa comunità cattolici e non cattolici: la stessa Taizé ha avuto serie difficoltà in questo senso. Con gli ortodossi le cose sono ancora più difficili: Bose ha buoni rapporti con i monaci dell’Athos, ma è anche l’unica comunità che ha il permesso di ospitarli quando vengono in occidente e di essere ospitata nei loro monasteri.
Siamo insomma ancora lontani dalla piena unità tra cristiani. Enzo Bianchi lo ha detto chiaramente al termine della conferenza: «Noi di Bose preferiamo non parlare di unità perfetta. Questo “vocabolario del perfetto” non ha nessun senso, anche se lo troviamo nei documenti magisteriali. Tutt’al più si può parlare di comunione, di un’unità visibile tra le Chiese. L’unità perfetta l’avremo solo nel Regno, è una cosa che troveremo di là».
Marco Galloni è giornalista, socio fondatore di Dimensione Speranza Onlus, sito di spiritualità, teologia, geopolitica ed economia (www.dimensionesperanza.it)
* Immagine di Centro Nazionale Volontariato, tratta dal sito Flickr, immagine originale e licenza. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite
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