Ricominciare a tessere. Se la voce di Gaia esce dal silenzio
Tratto da: Adista Documenti n° 39 del 14/11/2015
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C’è una voce, a lungo «costretta al silenzio dalla voce maschile», una voce che è altra dalle innumerevoli voci di donne altrettanto costrette al silenzio nei secoli, ma che tutte le accoglie, le comprende e in qualche modo le origina. È la voce di Gaia, una voce che, come afferma la teologa cattolica statunitense Rosemary Radford Ruether, «non si traduce in leggi o in conoscenza intellettuale, ma ci chiama alla comunione con tutte le creature». Solo ascoltandola possiamo guarire: curare la Terra per curare noi stessi. L'ecoteologia femminista, come il femminismo stesso, il pensiero ecologico e la Teologia della Liberazione, che sono le sue fonti, è di per sé plurale, una diversità di linee di ricerca in fieri che travalicano i confini spaziali e quelli tra le religioni e si intersecano nell'elaborazione teorica e nel vissuto reale dei gruppi di donne. Con un fondamento comune: il nesso privilegiato tra donna e natura.
L'approccio storico include, in una dimensione simbolico-mitica, la fase arcaica del regno delle dee primordiali, di cui molte ricercatrici ecofemministe hanno voluto individuare anche tracce concrete nei resti archeologici di antichissime civiltà matrilineari. È il tempo di Cronos, a cui le donne possono attingere per ritrovare i miti «ginocentrici» (Mary Daly), le storie archetipiche in cui si manifesta la forza del femminile, l'energia cosmica creatrice il cui simbolo è l'Albero della Vita, la Dea stessa. Ma il potere maschile, anche quello religioso, ha trasformato l'albero in una croce per le donne che sono vissute e vivono nel tempo umano e violentato la natura stessa con il suo sfruttamento distruttivo.
Come è potuto succedere? Tutta la teologia femminista, in un percorso avviato già dalla Women's Bible alla fine dell'Ottocento, ha ripercorso la storia della cultura occidentale e della religione ebraico-cristiana alla luce della dialettica uomo/donna, per rintracciare le cesure che progressivamente hanno relegato la donna in un'umiliante subalternità.
Rosemary Radford Ruether per prima ha organizzato questo grande affresco interpretativo. Le società neolitiche, afferma, vedevano «l'individuo e la comunità, la natura e la società, il maschio e la femmina, le divinità della Terra e gli dei del cielo in una prospettiva totale di rinnovamento del mondo»: un insieme organico e al suo interno paritario. Il primo nodo è nell'Antico Testamento. Mentre i Profeti agivano guardando a un «rinnovamento paradisiaco della Terra e della società» che non includeva l'oppressione, lo jahvismo proietta questa idea nella concretezza della storia, spezza violentemente il legame con la natura e, cambiando perfino il racconto della creazione nella Genesi – tema di fondo di tutta la teologia femminista –, cancella la memoria stessa del potere femminile: Javhè è il Dio maschile che fonda il patriarcato, la donna nasce dalla costola di Adamo e, nel sacrificio di Abramo, la madre Sara non ha neanche il diritto di essere presente. E «se Dio è maschio, il maschio è Dio» (Mary Daly).
Anche il mondo classico conosce un percorso di questo tipo. Dalla centralità della Dea-madre che si identifica con la Terra stessa, si arriva alla riorganizzazione della società nell'ottica normalizzatrice del maschile: le Eumenidi che ubbidiscono all'Aeropago sono il femminile istituzionalizzato e controllato che è l'unico lecito. Si definisce qui un dualismo portatore di sviluppi drammatici: la filosofia greca sancisce con Platone la dicotomia corpo/spirito e fonda con Aristotele una struttura gerarchica che include anche gli schiavi. La «“mente maschile dominante” – prosegue Radford Ruether – si appropria dei corpi degli altri come “strumenti”». Donne, barbari, schiavi e animali hanno un'unica funzione: essere «strumenti servili della mascolinità greca». Una scala inesorabile, con il Logos all'estremità superiore e la materia informe a quella inferiore. Nello sviluppo del cristianesimo la visione «anti-corporea e anti-femminile» è dominante, ma solo perché ha prevalso su quella autentica, rappresentata dalla figura di Gesù, che invece rivaluta in una prospettiva liberante la donna, il corpo e il femminile simbolico. Anche l'ascetismo, per l'ecoteologia, esprime una visione integrata, in cui Terra e corpo sono un tutt'uno, la materia è organica e lo sfruttamento condannato, nel sogno di un ritorno a una vita semplice e in armonia con tutti gli elementi del creato. E Francesco d'Assisi è sentito particolarmente vicino, come il «santo patrono della conservazione della Terra e dei diritti degli animali». Ma la linea vincente del pensiero medievale addirittura estremizza la visione negativa della natura, che viene maledetta e assimilata di fatto al Diavolo. Il “selvaggio” – le foreste, gli animali ma anche le donne – va ridotto all'impotenza o distrutto. Il calvinismo, con la scissione tra natura e grazia, approfondisce la dicotomia e prepara il terreno alla “rivoluzione scientifica”, con i suoi effetti devastanti. Bacone, osserva Ruether, usa un linguaggio da Tribunale dell'Inquisizione per descrivere i processi di ricerca: la natura deve essere messa alla prova e «costretta a cedere i suoi segreti», chiusa in laboratorio in condizioni di particolare pressione. È una natura che ricorda il femminile, una natura da «“penetrare”, conquistare, forzare a cedere», caduta nel peccato con Eva, e che «attraverso la conoscenza scientifica sarà restituita al dominio del maschio quale rappresentante di Dio sulla terra». Cartesio, affermando un dualismo radicale tra la mente e la materia inanimata e meccanica, crudelmente arriva a vedere gli animali come automi, aprendo la via alla giustificazione degli esperimenti dolorosi e della vivisezione, nei quali «le grida e i contorcimenti degli animali sono meri riflessi meccanici».
Le correnti più radicali dell'ecoteologia tendono a evidenziare le responsabilità della religione cristiana nella strutturazione di tale gerarchizzazione oppressiva, perché essa ha dato una giustificazione teorica al sentirsi, da parte dell'uomo (maschio), “superiore” al resto della natura, invece che parte di essa. E perché, nella sua impostazione antropocentrica e specista, ha incoraggiato la visione dualistica col maschile nel polo del bene, della civiltà e del potere e la natura, la donna, i diversi, gli oppressi di tutto il mondo nel polo del male da dominare.
Anche le differenze sociali e geopolitiche, la povertà e il divario Nord/Sud, sono ascrivibili infatti a questo ordine simbolico: la natura devastata è fonte dell'impoverimento – fino ai limiti della sopravvivenza – di molti popoli, al cui interno le donne sono le più povere tra i poveri. Se riguardo a questi temi è stato sottolineato l'aspetto politico della ricerca ecofemminista, si è arrivati anche, superando le barriere tra le fedi e le culture, a quella che è stata definita dal sacerdote cattolico indiano Felix Widred un'«ecoteologia interreligiosa». E sono proprio questi nessi non solo simbolici ma anche concretamente vissuti all'interno di reti e movimenti a offrire una preziosa indicazione sulla via per curare noi stessi e la Terra. Più che di una nuova teologia c'è bisogno di una nuova cosmogonia, una “teocosmologia femminista”, in cui l'“io” rinuncia non solo alla sua superiorità ma anche alla sua stessa peculiarità: «La nostra affinità con tutte le creature della Terra ci collega oggi all'intera Gaia vivente» (Ruether, Gaia e Dio). Un nuovo approccio che non può partire che dalla donna, una «nuova donna per una nuova Terra» (Ruether), perché «paradossalmente l'identificazione maschilista delle donne con la natura ha creato una cultura che in questi tempi di attesa e di tessitura può rivelarsi una benedizione per il pianeta» (E. Green). «Tessitura», tessitura di quei nessi spezzati dalla violenza della visione patriarcale fondata sul dominio. «Weave and unweave, knot and unknot (...)», scrive Mary Daly; «Mi hai intessuto nel seno di mia madre», dice il Salmo (139,13b).
Elizabeth Green così descrive quest'opera di ricostruzione: «Il tessere significa superare le separazioni che hanno contraddistinto il nostro pensare sia filosofico che teologico; leggendo insieme l’Iddio che tesse, lo spazio in cui intesse e la creatura stessa, ho cercato di superare i vari binomi che hanno per troppo tempo dominato il nostro dire e il nostro fare e vorrebbero il femminile passivo e il maschile attivo, la donna ancorata al passato e l’uomo al futuro, il femminile collegato alla Terra e il maschile al cielo, per arrivare sia nelle profondità della Terra che nelle altezze del cielo, dove tali separazioni non hanno motivo di esistere». Curare Gaia è accostarsi a Dio madre nell'opera di tessitura e ricomposizione, come spiega M. Riensiru, una delle Madres de Plaza de Mayo, in una stupenda preghiera che Elizabeth Green riprende dedicandola «A tutte le tessitrici del mondo»:
Dio è seduta e piange.
La meravigliosa tappezzeria
della creazione
che aveva tessuto
con tanta gioia è mutilata,
è strappata a brandelli,
ridotta in cenci:
la sua bellezza
è saccheggiata dalla violenza.
Dio è seduta e piange.
Ma, guardate,
raccoglie i brandelli,
per ricominciare a tessere. (…).
Guardate!
Tutto ritesse
con il filo d'oro della gioia.
Dà vita a un nuovo arazzo,
una creazione
ancora più ricca,
ancora più bella
di quanto fosse l'antica! (…).
Cristina Mattiello è insegnante e giornalista, americanista, autrice di “Le Chiese nere. Dalla religione degli schiavi alla Teologia della Liberazione” (Claudiana, 1993) e “Le frontiere della solidarietà: Chiesa cattolica statunitense e New Deal” (Bulzoni, 1994).
* Foto di Giampaolo Petrucci
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