Ritrovata la tomba di Marianella García Villas, collaboratrice di Romero, martire della giustizia
Per tutti coloro che hanno a cuore la memoria di Marianella García Villas, la giovane ed eroica presidente della Commissione dei diritti umani di El Salvador assassinata dai militari il 14 marzo del 1983, il ritrovamento della sua tomba da parte dell’associazione “Marianella Garcia Villas” di Sommariva del Bosco (Cuneo) è una notizia graditissima: «Finalmente sarà possibile per chiunque portare un fiore sulla tomba di Marianella, onorarne la memoria, ricordarla ogni anno», ha commentato l'associazione, attualmente impegnata, tra l'altro, nella diffusione in El Salvador di una brochure in spagnolo su Marianella - tratta dal libro di Anselmo Palini Avvocata dei poveri, difensore degli oppressi, voce dei perseguitati e degli scomparsi (Editrice Ave, 2014, pp. 265, 12 euro; v. Adista Notizie n. 12/14) - , allo scopo di sollevare il velo di silenzio che ha coperto la sua vicenda umana, politica e religiosa.
Ma come è stato possibile perdere le tracce della tomba di uno dei simboli più luminosi della lotta contro la dittatura militare in El Salvador? Se, spiega l'associazione, il clima di terrore instaurato dai militari aveva impedito a parenti e amici di partecipare al suo funerale (solo tre i familiari presenti, più alcuni giornalisti), la bara di Marianella era poi stata sepolta in un luogo sconosciuto e nessuno era in condizioni di far domande o avviare ricerche per individuarla, tanto più che i familiari, per sfuggire alla violenza del regime, erano dovuti riparare all'estero.
La tomba è stata ritrovata nel cimitero principale di San Salvador, in una cappella, chiusa da una cancellata, che porta come iscrizione “Beneficiencia Spagnola” (suo padre era spagnolo). E subito, e con grande emozione, si sono recate presso la sua tomba le persone che hanno conosciuto Marianella, che ne hanno condiviso la lotta in difesa dei diritti umani, che si sono adoperate per mantenerne vivo il ricordo. Perché, di certo, la sua storia - se si confonde con quella di tante donne e di tanti uomini, noti e meno noti, che hanno irrigato con il loro sangue innocente il suolo salvadoregno - si presenta allo stesso tempo come una vicenda dai tratti unici: quella di una figlia della ricca borghesia che avrebbe potuto condurre una vita diversa, tranquilla e agiata, e che invece aveva scelto di vivere l’inferno dei poveri, raccogliendo instancabilmente prove e testimonianze sulle sempre più gravi violazioni dei diritti umani, senza mai concedersi distrazioni né vacanze e andando consapevolmente incontro al suo destino. Marianella sapeva infatti di essere condannata a morte: la sentenza l’aveva pronunciata, già nel febbraio del 1980, il maggiore Roberto D’Aubuisson, durante un programma televisivo, mostrando le foto e indicando i nomi di circa 200 persone considerate vicine alla guerriglia, tra cui, in cima alla lista, lei e mons. Romero. E nessun dubbio doveva più restarle dopo l’assassinio dell’arcivescovo e quello di altri componenti della Commissione dei diritti umani. Finché, il 13 marzo del 1983, nella zona di La Bermuda, nei pressi di Suchitito, non era stata catturata dal battaglione Atlacatl mentre indagava sull’uso di fosforo bianco da parte dell’esercito, e poi trasferita in elicottero a San Salvador, torturata e uccisa.
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