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E la terra tremerà

Tratto da: Adista Documenti n° 1 del 11/01/2014

È per me un privilegio essere qui con voi, in un teatro occupato dai lavoratori. Tutto quello che il Mst ha conquistato nel corso dei suoi 30 anni di vita è dovuto proprio alla pratica dell’occupazione di massa, della terra come delle banche, dell’università, dei mezzi di comunicazione, delle transnazionali. Sono contento di poter scambiare con voi alcune idee, riguardo alla congiuntura latinoamericana, a quella brasiliana e alla Riforma Agraria. Si tratta di idee discusse all’interno del Mst e con gli altri movimenti sociali del Brasile, anche nell’ambito di Via Campesina. 


CONGIUNTURA LATINOAMERICANA

Nell’attuale contesto storico, la correlazione di forze a livello di lotta di classe è assai sfavorevole alla classe lavoratrice. Dagli anni ‘90 a oggi, il capitalismo è entrato in una nuova tappa, egemonizzata dal capitale finanziario e dalle grandi transnazionali. Ciò significa che, per la prima volta nella storia dell’umanità, si assiste a un modo di accumulazione del capitale predominante in tutto il pianeta, per quanto, a partire dal 2008, le contraddizioni legate a tale modello siano esplose in alcuni Paesi. La classe lavoratrice in tutto il mondo vive ancora in un periodo di riflusso del movimento di massa, in conseguenza della sconfitta politica e ideologica sofferta precedentemente. Le reazioni popolari che si sono registrate in alcuni Paesi sono state per lo più forme di protesta da parte dei giovani: è mancata da parte della classe lavoratrice un’iniziativa diretta ad accumulare forze per un progetto alternativo al capitale. Tali manifestazioni, tuttavia, rappresentano una sorta di termometro della società: il fatto che i giovani inizino a mobilitarsi indica la possibilità che in seguito si mobilitino anche le masse popolari.

In America Latina, negli ultimi anni, la reazione popolare che si è registrata sul terreno istituzionale contro il neoliberismo ha portato alla nascita di diversi governi progressisti. Tuttavia, tale reazione non è stata accompagnata da una ripresa del movimento di massa, con l’unica possibile eccezione della Bolivia; anche in Venezuela, infatti, le masse si limitano essenzialmente a partecipare alla vita politica istituzionale, elettorale.

In questo quadro, è in atto in America Latina un conflitto permanente fra tre diversi progetti.

Il primo progetto è quello promosso dagli Stati Uniti che, di fronte alla crisi del capitalismo nell’emisfero nord, mirano a ricolonizzare il continente americano, con l’obiettivo principale di controllare l’accesso alle materie prime energetiche e di rilanciare gli accordi di libero commercio, esercitando a tal fine pressioni militari e, attraverso il controllo sui mezzi di comunicazione, ideologiche. Si spiega così l’Alleanza del Pacifico, il progetto con cui gli Usa hanno legato a sé tutti i Paesi del Pacifico - Messico, Panama, Colombia, Perù e Cile -, come pure le pressioni esercitate sul Mercosur affinché firmi un accordo con gli Stati Uniti: si avrebbe, in tal modo, la ricreazione dell’Alca con un altro nome.

Il secondo progetto è quello di un’integrazione latinoamericana senza gli Usa ma di segno capitalista: un’integrazione delle imprese capitaliste, di quei settori delle borghesie locali della Colombia, del Messico, del Brasile, dell’Argentina, del Cile, interessati a realizzare programmi di integrazione economica in competizione con gli statunitensi. È questo lo spirito del Mercosur e anche dell’Unasur, l’Unione delle Nazioni Sudamericane: quello di un mercato latinoamericano senza gli Stati Uniti.

Il terzo progetto è quello dell’Alba, il progetto di integrazione popolare dell’America Latina voluto da Chávez e di cui fanno parte oggi sette Paesi. Tuttavia, noi che facciamo parte dei movimenti sociali pensiamo che l’articolazione dei governi non basti e che sia necessario costruire in America Latina un’integrazione che coinvolga tutte le forze popolari: un’integrazione culturale, politica e ideologica di stampo fondamentalmente antimperialista e antineoliberista, non essendoci ancora, evidentemente, le condizioni per pensare a una integrazione di tipo socialista.

Quel che è in atto oggi in America Latina è una lotta permanente fra questi tre progetti, una lotta che si riflette in ogni elezione presidenziale. Ci troviamo così di fronte a una congiuntura in cui alcuni Paesi sono schierati con gli Stati Uniti, come Messico, Colombia, Paraguay; altri aderiscono al secondo progetto, come Argentina e Brasile, e altri ancora partecipano al progetto dell’Alba, come Cuba, Venezuela, Bolivia e Ecuador.

Nel processo di costruzione del progetto dell’Alba esistono varie attività comuni che coinvolgono le organizzazioni dei lavoratori (e a volte anche i governi di sinistra) in vari Paesi dell’America Latina. Per esempio, i pedagogisti cubani hanno elaborato un nuovo metodo di alfabetizzazione degli adulti che mette insieme Paulo Freire e la televisione, permettendo a qualsiasi militante, anche senza una specifica formazione pedagogica, di alfabetizzare centinaia di compagni. Questo programma, che si chiama “Sì, io posso”, lo stiamo applicando in vari Paesi latinoamericani, a volte insieme ai governi, come in Venezuela e in Bolivia, e altre volte da soli, come in Brasile, in Argentina e adesso ad Haiti, dove esiste una brigata di Mst-Via Campesina/Brasile. Quando a marzo sono andato a far visita alla nostra brigata ad Haiti, mi hanno portato a conoscere una comunità in mezzo alle montagne, dove c’era una piccola scuola rurale, con una targa in cui era scritto: “Questa scuola è stata costruita con la solidarietà dei lavoratori italiani della Rete Radié Resch”. È questa solidarietà internazionale che, nella pratica, aiuta a risolvere i problemi del popolo e a creare alternative.

Esistono altre esperienze di integrazione popolare, per esempio in campo economico. Noi del Mst abbiamo oggi la più grande fabbrica di succo di uva naturale, finanziata della Banca dello Sviluppo del Venezuela: produciamo 5 milioni di litri di succo di uva all’anno, che esportiamo in Venezuela e in Bolivia e che fanno parte della merenda scolastica dei bambini brasiliani. Non vogliamo venderlo ai supermercati: i nostri prodotti biologici sono prima di tutto per la classe lavoratrice.

Stiamo organizzando per il prossimo anno un incontro in Argentina per riunire tutte le esperienze di fabbriche recuperate e autogestite, in maniera da creare una rete di iniziative economiche sotto il controllo della classe lavoratrice.

Al processo di integrazione sono inoltre legate diverse campagne di solidarietà, come quella, all’interno dell’Alba, per l’uscita delle truppe da Haiti (truppe coordinate dal Brasile).


CONGIUNTURA BRASILIANA

Anche in Brasile viviamo un periodo molto difficile: abbiamo eletto Lula e Dilma per sconfiggere ideologicamente il neoliberismo e ci siamo invece ritrovati di fronte a governi di composizione di classe a cui fanno riferimento il capitale finanziario, la borghesia industriale, la classe media, la classe lavoratrice (il cui salario è aumentato), i contadini e i poveri (salvati dalla fame grazie al programma Borsa Famiglia). Negli ultimi 12 anni, questo tipo di governo di coalizione ha garantito stabilità economica ed elettorale, ma è ora giunto al suo limite: le manifestazioni di giugno e luglio - che hanno portato in piazza milioni di giovani - ne hanno sancito il fallimento. Perché non è possibile elevare le condizioni di vita del popolo brasiliano accontentando tutti: un miglioramento sarà possibile solo se il governo avrà il coraggio di scontrarsi con gli interessi del capitale.

Si può prendere come esempio la politica educativa. Quando Lula ha vinto le elezioni, soltanto il 6% dei giovani aveva accesso all’università. Negli anni del suo governo, si è riusciti a raddoppiare il numero degli studenti universitari, pari oggi al 12% dei giovani, molti dei quali appartenenti a famiglie povere e afrodiscendenti. Ma c’è ancora un 88% dei giovani che esce dalla scuola secondaria senza possibilità di proseguire negli studi. Quindici giorni fa, il governo ha realizzato un concorso per 600mila posti nelle università pubbliche brasiliane, ma si sono iscritti in 6 milioni: ciò significa che ogni anno vi sono 5,4 milioni di giovani che vorrebbero realizzare studi universitari ma non ne hanno la possibilità.

Se il governo vuole continuare ad ampliare l’accesso all’università, ha una sola strada: sospendere il pagamento degli interessi alle banche, pari a 150 miliardi di dollari all’anno. Solo liberando questi soldi e investendoli nell’educazione sarà possibile risolvere questo problema. Potrei aggiungere anche l’esempio del trasporto pubblico: a São Paulo le persone perdono due ore al giorno per andare a lavoro o a scuola e due ore per tornare, spendendo 3 euro (il che significa che un lavoratore retribuito con un salario minimo finisce per spendere fino a un quarto del suo stipendio per i trasporti, ndr). O l’esempio delle abitazioni: dopo la crisi del 2008, in tutto il Brasile il prezzo degli immobili è aumentato in media del 300%.

In risposta alle mobilitazioni, la presidente Dilma ha dichiarato che la via d’uscita per questa crisi era quella della convocazione di una Costituente per realizzare una riforma politica, ma il Parlamento e anche vari ministri del suo stesso governo si sono opposti. Pertanto, la strada dei cambiamenti per via istituzionale appare decisamente bloccata. Se la fortuna del governo è che la destra si presenterà divisa fra tre candidati alle prossime elezioni, i sondaggi rivelano comunque un dato che mi pare veritiero: il 41% delle persone consultate voterà per Dilma, che quindi verrebbe rieletta, ma il 66% esige cambiamenti.

Qual è la posizione dei movimenti sociali di fronte a questa congiuntura? Noi non crediamo che le prossime elezioni, previste per l’ottobre del 2014, possano cambiare la situazione del Brasile. Ci attendiamo che Dilma venga rieletta e che il Parlamento abbia un carattere conservatore, dal momento che i candidati saranno finanziati dal grande capitale.

In questo quadro, stiamo investendo le nostre energie in due direzioni. La prima è quella di rilanciare le mobilitazioni di massa, che speriamo possano riprendere a partire da marzo (in Brasile tutto ricomincia a funzionare dopo carnevale). La seconda è quella di promuovere un plebiscito popolare per una Costituente che realizzi le riforme politiche. A tal fine, abbiamo costruito una grande coalizione di cui fanno parte oltre 100 movimenti e organizzazioni, dalle centrali sindacali fino alla Cnbb (la Conferenza dei vescovi brasiliani), per poi promuovere, il prossimo 7 settembre, il Giorno della Patria in Brasile, un plebiscito popolare in cui la popolazione possa esprimersi a favore o contro la convocazione di una Costituente. Se, come speriamo, otterremo 30/40 milioni di voti, potremmo avere la forza sufficiente per indurre il congresso e il governo a convocarla almeno nel 2015, continuando, nello stesso tempo, a esercitare pressioni attraverso le manifestazioni di strada. Ci attendono, ne siamo certi, quattro anni di profonda crisi della politica.

RIFORMA AGRARIA

La lotta per la riforma agraria in Brasile sta attraversando un periodo molto duro. Per varie ragioni. La prima è data dall’offensiva del capitale internazionale, attratto dall’enorme ricchezza territoriale del Brasile. La situazione è assai complessa. Per quanto il capitalismo mondiale, a partire dal 2008, sia entrato in crisi, su di noi tale crisi ha avuto un effetto contraddittorio: i capitalisti - che controllavano denaro virtuale senza base reale - sono corsi in Brasile per trasformare questo capitale fittizio in patrimonio: terra, centrali idroelettriche, miniere, foreste.

La seconda ragione sta nella speculazione sulle commodity agricole da parte del capitale finanziario, con il conseguente aumento vertiginoso del prezzo dei beni agricoli. La soia, per esempio, che per tutto il XX secolo aveva un prezzo internazionale di 200 dollari a tonnellata, oggi è passata a 580 dollari: considerando gli straordinari profitti, tutti i capitalisti mirano a piantare soia in Brasile. Così, se la terra che prima occupavamo apparteneva, per esempio, alla grande fazenda di un latifondista di origini calabresi, ora è di proprietà di una banca degli Stati Uniti o della Cargill o della Fiat: dobbiamo scontrarci con poteri enormi.

La terza ragione per cui la riforma agraria è bloccata è che, essendo quello di Dilma un governo di composizione di classe, al suo interno si incontrano anche le forze dell’agrobusiness. Le quali, dopo aver messo mano al codice forestale, stanno lanciando ora un’offensiva contro i popoli indigeni e gli afrodiscendenti, con l’obiettivo di espandere ancor di più le aree sotto il loro controllo.

La quarta e ultima ragione è che, dal 2005 a oggi, anche il Mst ha sofferto il periodo di riflusso del movimento di massa. E non perché sia venuta meno la volontà di lottare, ma perché le condizioni della lotta di classe risultano più difficili: le masse percepiscono l’impossibilità di una vittoria e si tirano indietro. Abbiamo 80mila famiglie accampate, molte delle quali vivono da 8 anni sotto i teloni di plastica nera, eppure per tutto l’anno Dilma non ha espropriato neanche una fazenda (ma appena 10 proprietà che nel complesso possono accogliere non più di 5000 famiglie). Per provocarla le diciamo: l’ultimo governo militare che ti ha torturato ha espropriato più terra di te.

In questa situazione, abbiamo passato gli ultimi due anni a preparare il nostro congresso, definendo un nuovo programma del MST, basato su una lotta per una riforma agraria popolare diretta a combattere, oltre il latifondo, anche il modello agricolo imposto dalle imprese transnazionali. E sulla convinzione che, per ottenere conquiste reali, dobbiamo allearci con la classe lavoratrice urbana. Come pure ottenere mutamenti nella politica.

Così, dal 10 al 14 febbraio prossimo, terremo a Brasilia (con la presenza, prevediamo, di circa 15mila militanti) il nostro congresso - che in realtà è piuttosto una celebrazione, in quanto il vero congresso è dato dai due anni di discussioni che lo precedono - per celebrare l’unità intorno a questo programma e fissare la strategia per gli anni futuri. 


UN NUOVO MODELLO DI PRODUZIONE AGRICOLA

In questa fase, segnata dal dominio del capitalismo finanziario e delle transnazionali, sono in corso cambiamenti dei paradigmi della produzione agricola, in direzione della privatizzazione di tutte le risorse naturali. Così come, durante il XX secolo, i capitalisti si sono appropriati della terra introducendo la proprietà privata, allo stesso modo hanno iniziato a mettere le mani sull’acqua e ora si stanno impadronendo dei minerali, dei boschi, dei venti (con l’energia eolica) e persino dell’ossigeno rilasciato dalle foreste, trasformato in un titolo di credito di carbonio da scambiare alla borsa valori. Cosicché, in Brasile e in America Latina, alcune imprese hanno già convinto comunità indigene a vendere loro l’ossigeno delle foreste.

Questa invasione del capitale rispetto ai beni della natura ha messo in luce tuttavia diverse contraddizioni, le quali mostrano come il capitale generi le condizioni per la sua stessa distruzione e ci costringono, per esempio, a pensare all’agricoltura in modo diverso. I movimenti contadini che sono sorti e si sono sviluppati lungo il XX secolo avevano una visione economicista e corporativa, pur avendo assunto forme rivoluzionarie come quella messicana di Zapata, con la sua idea della “terra a chi la lavora”. Idea rivoluzionaria nel suo opporre il lavoro al capitale, ma anche frutto di un atteggiamento corporativo, come se la natura appartenesse solo ai contadini.

In che modo dobbiamo cambiare paradigma in relazione all’agricoltura? Per prima cosa, occorre capire che la funzione sociale principale dell’agricoltura è produrre alimenti, alimenti sani che portino vita. Il capitale riesce a produrre solo alimenti avvelenati che provocano il cancro, che uccidono la biodiversità, che producono squilibri nell’ambiente e nel clima. In Brasile, l’Istituto Nazionale sul Cancro ha rivelato che si ammalano ogni anno di tumore 514mila brasiliani, il 40% dei quali ne muore. 200mila morti all’anno e nessuno dice niente. È come una guerra, i cui responsabili sono imprese transnazionali come la Bayer, la Basf, la Syngenta… E poiché i cibi devono essere trattati per essere conservati, trasportati e venduti ai consumatori, dobbiamo pensare anche a un nuovo tipo di agroindustria, su piccola scala, in forma cooperativa, che sia di proprietà dei lavoratori e che tratti gli alimenti senza utilizzo di veleni. Il modello della grande agroindustria, come Nestlè o Danone, è fallito: queste fabbriche andrebbero occupate e distrutte, perché sono fabbriche di morte.

Dobbiamo allora adottare un nuovo modello di produzione, quello agroecologico, inteso come un insieme di tecniche agricole orientato ad accrescere la produttività del lavoro. Non è vero che con l’agroecologia le persone debbano lavorare di più e solo con le proprie forze. Le conoscenze devono servire proprio a lavorare la terra con meno fatica e senza provocare squilibri ambientali.

Il capitalismo industriale non educava le persone: le rendeva soltanto esperte di alcune tecniche. Noi dobbiamo operare una rivoluzione in campo educativo, diffondendo conoscenze a favore della vita. Non serve a niente avere la terra, avere una cooperativa, avere un trattore, se si resta nell’ignoranza: solo le conoscenze liberano le persone. Per questo abbiamo assunto la lotta per la democratizzazione delle conoscenze, al di là della saggezza popolare, affinché i lavoratori si riapproprino della scuola. Per questo mi rallegro che stiate occupando questo spazio culturale: un teatro popolare è una scuola popolare. Noi, come Mst, abbiamo promosso molte occupazioni di scuole, anche insieme ai bambini, perché siano loro i protagonisti di questi necessari cambiamenti. 


LE VIE DI USCITA

Tutti noi siamo convinti del fatto che il capitalismo non rappresenti una via di salvezza. Tutti vogliamo un modello post-capitalista. Ma non dobbiamo legarci a etichette e formule che spesso dividono più che unire. Il nostro problema, ora, è creare un’unità dei movimenti popolari per accumulare forza sufficiente a produrre cambiamenti. Trovandoci in un periodo storico di riflusso del movimento di massa, è più difficile operare, perché le masse sono apatiche. Ma non è stato sempre così e non sarà sempre così. In questo quadro, ci possono tornare utili, per esempio, le indicazioni della scuola degli storici marxisti britannici come Eric Hobsbawm, Giovanni Arrighi, Edward P. Thompson, i quali ci spiegano che la lotta di classe all’interno del capitalismo non è una scala che sale verso l’alto, con la classe lavoratrice che elegge un consigliere, poi un sindaco, poi un presidente, fino ad arrivare in paradiso, ma non è nemmeno una scala che precipita verso il basso, con il capitale che vince, e vince, e ancora vince… A giudizio degli storici britannici, la lotta di classe procede invece per onde, secondo il rapporto di forze tra classi antagoniste. Ci sono periodi in cui la classe lavoratrice riesce ad accumulare forze e ad assumere l’offensiva contro il capitale. Altri in cui si determina uno scontro tra i due progetti del capitale e del lavoro, scontro che può portare a una crisi permanente di lotta per il potere o a situazioni prerivoluzionarie. Altri ancora in cui si registra un riflusso del movimento della classe lavoratrice, la quale, sconfitta politicamente e ideologicamente, è costretta a fare un passo indietro e a occuparsi delle questioni quotidiane della vita. Periodi, questi ultimi, in cui sono maggiori i rischi di deviazioni, sia verso un riformismo corporativo, sia verso un estremismo dottrinario. E, infine, periodi di resistenza, in cui la classe lavoratrice recupera le forze e si rianima: periodi che precedono la ripresa del movimento di massa.

Nonostante le difficoltà, in America Latina siamo riusciti a far eleggere governi di sinistra o comunque progressisti, ma tali governi non sono riusciti a realizzare cambiamenti strutturali, perché non sono stati il frutto di una ripresa del movimento di massa, ma piuttosto di una reazione popolare di indignazione di fronte al neoliberismo. Dopo un lungo periodo di riflusso del movimento di massa, pensiamo, però, di essere ora in un periodo di resistenza come preludio di un processo di ripresa - entro qualche anno, speriamo - della classe lavoratrice.

Viviamo tempi difficili, tempi di riflusso e di resistenza, tempi, per così dire, di lavoro clandestino, di lavoro che non si vede. In questo quadro, la sinistra deve re-imparare a parlare con la classe lavoratrice, quello che noi in Brasile chiamiamo lavoro di base: un lavoro che non finisce sui giornali, ma che esige dai militanti tempo, pazienza e umiltà, per cogliere quanto emerge dai luoghi in cui il popolo vive e lavora e aiutarlo a organizzarsi, perché nessun problema può essere risolto senza che il popolo si mobiliti.

La seconda missione è quella della formazione politica. Che significa formazione politica? Imparare dottrine? Citare frasi di Lenin? O piuttosto imparare dai classici il metodo con cui analizzare la realtà e organizzare il popolo? In fin dei conti, che cosa hanno fatto i classici? Ci hanno raccontato le esperienze storiche che hanno vissuto, in maniera che potessimo apprendere le lezioni della lotta di classe nel corso del tempo, anche per non ripeterne gli errori. È per questo che nella nostra scuola di formazione politica valorizziamo i classici, studiando Marx, Lenin, Gramsci, ma anche i brasiliani Paulo Freire, Josué de Castro e tanti altri. Questa è la formazione politica: apprendere dal passato.

La terza missione è quella di una dura lotta contro l’egemonia della cultura e delle comunicazioni, in cui la borghesia detiene un potere assoluto. Durante il XX secolo, segnato dal predominio del capitalismo industriale, la riproduzione ideologica della visione borghese del mondo era garantita dalla scuola e dalla Chiesa. Ora il capitalismo finanziario non ha più bisogno della scuola. I giovani escono dalla scuola senza sapere niente. Il loro insegnante oggi si chiama Facebook. E neanche la Chiesa cattolica riveste più interesse per la borghesia: non a caso è stato eletto un papa come Francesco, senza alcuna vocazione di tipo capitalista. È vero che gli statunitensi usano ancora i pentecostali, ma solo per tenere buono il sottoproletariato.

Come fa allora la borghesia a riprodurre ideologicamente il suo modello di società? Con la televisione. E quindi va fatta una vera guerra di guerriglia a favore della controinformazione, in tutte le forme possibili.

Infine, dobbiamo sviluppare sempre più processi unitari. La sinistra deve tornare a essere umile, smettere di sentirsi padrona della verità, rispettare ogni forma di organizzazione e investire energie nella creazione di coalizioni più ampie possibili della classe lavoratrice. Diceva Gramsci che dobbiamo lottare per lo Stato ampliato. Che cos’è lo Stato ampliato? Sono tutti gli spazi all’interno della società in cui può esprimersi la classe lavoratrice.

Parlare delle forme di lotta è una falsa questione. Alcuni gruppi rivendicano la loro forma di lotta come l’unica. E altri dicono: no, bisogna agire in maniera più radicale. In Brasile abbiamo sempre usato questa formula pedagogica: la forza del capitale sta nel denaro. E la forza dello Stato è nelle forze armate: quando si vuole imporre la volontà dello Stato arriva l’esercito. E la forza della classe lavoratrice dove sta, se non ha né soldi né armi? È nel numero: quante più persone riusciamo a mettere insieme, più forza abbiamo. Ed è il numero che determina le forme di lotta. Se siamo in cinquanta, al massimo possiamo chiedere di essere ricevuti dal sindaco; se siamo in mille, possiamo magari organizzare una marcia; se siamo in cinquemila, possiamo occupare qualche edificio e, se siamo in cinque milioni, possiamo scendere in strada e far cadere il governo. Quindi, la forma di lotta non è un principio: dipende dal numero dei soldati, come diceva Clausewitz, e, nel nostro caso, dal numero di lavoratori che si mobilitano per una stessa causa.

Tutto questo fa parte dell’esperienza storica della classe lavoratrice: chi non ne ha tenuto conto è stato sconfitto. E noi non vogliamo più essere sconfitti. Perché altrimenti, nel prossimo futuro, non solo saremo battuti ideologicamente, ma saremo anche eliminati fisicamente, in quanto, per la riproduzione del capitale, gli esclusi non sono di alcuna utilità.

In questa esigenza di sviluppare processi unitari, si è resa necessaria un’articolazione con i lavoratori urbani. Se qualche gruppo di lavoratori in lotta ha bisogno della nostra solidarietà, noi del Mst cerchiamo di andare in loro soccorso. Abbiamo, per esempio, una solida alleanza con i lavoratori delle fabbriche di veleni della Syngenta, della Bayer, della Basf.

Vi è poi la questione indigena. In Brasile vivono circa 280 popoli indigeni, per un totale di un milione di persone: troppo pochi e troppo dispersi nel territorio per resistere all’invasione del capitale. Senza contare che, non essendo agricoltori, subiscono anche le pressioni di chi pensa che le aree indigene non servano a niente. Noi del Mst e di Via Campesina riteniamo di dover difendere i popoli indigeni, anche solo per una questione morale e storica: sono i nostri antenati, hanno custodito la natura e ora possono sopravvivere solo con la solidarietà della classe lavoratrice. Come Mst, posso garantirvi che abbiamo cercato di non far mancare la nostra solidarietà, partecipando anche ad alcune lotte di rioccupazione di aree indigene. Vi sono due regioni nel sud del Paese in cui, in passato, è stata data ai contadini una terra che si è poi rivelata un’area indigena. Secondo i politici populisti, i contadini avrebbero dovuto opporsi alle rivendicazioni degli indios. Noi, invece, abbiamo detto loro: questa terra è degli indios e dunque deve essere restituita loro, ma dovete esigere dal governo un indennizzo. È chiaro che si tratta di un conflitto di grande complessità. Tanto che alcuni preti si sono schierati con i contadini, mentre i vescovi del Rio Grande del Sud hanno adottato una posizione corretta prendendo le difese degli indios.

L’alleanza più importante, tuttavia, è quella che si costruisce a livello politico. Ora, nella congiuntura brasiliana, stiamo costruendo una buona alleanza intorno alla riforma politica, perché è una questione che interessa tutti: il movimento sindacale, i movimenti sociali, le Chiese, i contadini, i giovani…

Assai più ardua è la costruzione di questa unità popolare a livello mondiale, in quanto esige un alto grado di umiltà di fronte alla diversità enorme delle forme di organizzazione popolare nel mondo. E anche una grande quantità di risorse per la costruzione di spazi unitari. In altri tempi, le risorse arrivavano dai governi socialisti, dai governi di sinistra, dai partiti. Ma oggi non possiamo contare su nessuna di queste antiche fonti.

Abbiamo sognato - in alcune fasi - di costruire un grande congresso popolare mondiale, in cui riunire 10/15mila dirigenti di tutti i movimenti sociali del mondo. Sappiamo che il capitalismo è mondiale, che il numero dei nemici è ridotto - le banche e una cinquantina di imprese transnazionali -, che i metodi da questi impiegati per sfruttarci sono gli stessi, qui, in Argentina, in Brasile, negli Stati Uniti, che ovunque si registrano gli stessi processi di precarizzazione del lavoro, di espulsione dei contadini. Cosa manca? Che la classe lavoratrice si riunisca a livello internazionale. E se i partiti non riescono più a farlo e neppure ci riesce il movimento sindacale, allora dobbiamo creare un altro spazio che permetta a tutti di avvicinarsi. Abbiamo tentato di farlo all’interno del Forum Sociale Mondiale con le assemblee dei movimenti sociali - in particolare a Porto Alegre, dove avevamo una maggiore capacità di egemonia, ma anche più tardi, negli incontri di Nairobi e di Belém -, ma questi spazi non sono riusciti a consolidarsi. E i Forum sociali hanno finito per essere poco rappresentativi, perché sono pochi i movimenti sociali che hanno i soldi per parteciparvi e le Ong sono diventate la maggioranza. Si tratta ormai di una forma di turismo sociale che ha un suo valore culturale, ma che non serve ad organizzare il popolo. E quindi stiamo valutando in che modo creare un altro spazio che riunisca tutti i movimenti sociali del mondo, in maniera che, per esempio, nascano sinergie tra le tante lotte esistenti: la lotta per la casa, le lotte contro lo sfruttamento minerario, in difesa dell’acqua, contro l’energia nucleare, contro i transgenici, contro i mezzi di comunicazione della borghesia...

Servono spazi in cui creare sinergie tra tutti questi processi. Se troveremo metodi rispettosi della partecipazione popolare, potrà essere una bella esperienza di democrazia partecipativa e di rinnovamento della classe lavoratrice. Questa è la sfida che stiamo raccogliendo ora a livello internazionale: come creare uno spazio che aggreghi tutti i movimenti sociali. E, malgrado le difficoltà, sono ottimista, perché penso che il peggio sia già passato. Nel XX secolo la curva della lotta di classe era diversa da Paese a Paese, perché il rapporto di forze era dato dalla lotta tra capitale e lavoro in ciascun Paese. Quindi, mentre qui in Italia, magari, la classe lavoratrice era in fase di ascesa, in Brasile era in fase di declino, o viceversa, e quindi, vivendo tappe differenti, i lavoratori non avevano modo di comunicare tra loro. Quale è stata la grande contraddizione della internazionalizzazione del dominio del capitale finanziario? Il fatto che adesso, probabilmente, la curva della lotta di classe sarà mondiale e quindi, quando comincerà la fase di ascesa, sarà così dappertutto. E la terra tremerà. 

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